Intervista a Luigi Pironaci

Pubblichiamo di seguito l'intervista a Luigi Pironaci, regista di Iddhu, vincitore del Premio Arsenale dell'edizione 2021


Che cos’è per te il cinema indipendente? Quale definizione ne daresti?

Per me il cinema indipendente è la “palestra imprescindibile” per chiunque voglia intraprendere questo duro, faticoso, a volte snervante, ma meraviglioso mestiere. Senza il cinema indipendente, non esisterebbe neanche il cinema mainstream, perché sarebbe come una casa senza fondamenta. Se dovessi ridefinire il cinema indipendente, quindi, lo definirei come “le fondamenta della libertà artistica”.

Qual è stato l’iter produttivo del corto “Iddhu”, che partecipò al nostro festival?

E’ stato come quello di tutti i film, cortometraggio o lungometraggio che sia. E’ nato tutto da una idea che ho proposto al produttore Luca Marino (Indaco film). Da quel momento abbiamo iniziato a pensare dove e come avremmo realizzato quella storia di amicizia ambientata completamente su una barchetta in mezzo a un lago, e subito dopo, insieme al mio d.o.p. Vittorio Sala, ci siamo mossi per i sopralluoghi. Successivamente ho contattato tutti i capireparto e la storia ha iniziato magicamente a prendere vita. Costumi, scenografie, musica, fino a quando, su quella barchetta, si sono materializzati i personaggi che volevo raccontare. Questo è successo grazie e soprattutto all’interpretazione dei due bravissimi attori (Mauro Lamanna e Alessio Praticò) che sono riusciti a renderli “esistenti”.

Dopo il corto “Iddhu”, quali progetti hai realizzato? Che cosa hai in cantiere in questo momento?

Purtroppo, dopo un mesetto dall’uscita di “Iddhu”, si è verificato un evento storico impensabile che ha segnato tutto e tutti e dal quale non ne siamo ancora usciti completamente. La pandemia, in quel momento, non solo aveva rallentato i festival e la distribuzione dei film, ma stava già riscrivendo le sorti della produzione cinematografica. Dopo Iddhu, quindi, visti i problemi produttivi che iniziavo a incontrare in termini di paura, di costi eccessivi dati dalla percentuale di budget da destinare ai tamponi, ai bandi bloccati ecc. ecc., ho continuato a scrivere sceneggiature di lungometraggio, cortometraggio e anche soggetti per serie tv. In quel periodo, sempre a livello indipendente, ho realizzato il videoclip dell’artista Killacat (Cenere) che partiva proprio dal sentimento di solitudine che la pandemia stava acuendo in tutti noi.  

Qual è, a tuo giudizio, lo stato di salute del cinema nel tuo Paese, e quali opportunità sono offerte ai registi emergenti?

A questa domanda si possono dare due risposte: una risposta di speranza e una risposta sincera. Se scegliessimo la prima potremmo dire che stiamo per rivivere una “nuova primavera”. Se scegliessimo la seconda, diversamente, diremmo che siamo ancora in pieno inverno, quello più rigido. A mio avviso se parliamo di Cinema, tralasciando l’apporto delle piattaforme che non fanno altro che “costruire” prodotti fruibili da una molteplicità di persone indistinte (al pari di una industria di piatti di ceramica o di automobili – Boris docet!), non possiamo parlare dei suoi anni migliori. Noto con dispiacere che l’offerta narrativa, in Italia, è un po’ imbambolata dalla produzione straniera. Troppi remake, reboot, e traslazioni italiane di prodotti stranieri. Noto con piacere, invece, che la televisione sta provando a modificare i suoi codici parlando a un pubblico più interessato al linguaggio dell’audiovisivo.

Per quanto riguarda i registi emergenti, invece, credo che sia la categoria più precaria che il mondo del lavoro conosca. E la precarietà del giovane regista emergente, qui in Italia, non è soltanto economica, è soprattutto di sentimento riguardo al mestiere che ama e che vorrebbe fosse la sua vita. Oggi a un regista emergente non è più consentito di sognare a occhi aperti. Deve necessariamente scontrarsi con la realtà, con la politica, con il commercio del “nome dell’attore protagonista perché sennò non sbiglietti” e con le piattaforme che però lo ascoltano soltanto se “spinto” da una produzione blasonata che intanto fa leva sui registi già noti. Il problema dei registi emergenti è sempre lo stesso: che sono emergenti. Ovviamente a tutto questo io preferisco la prima risposta, quella di speranza.

Qual è stato il percorso di distribuzione della tua opera?

Zen Movie, il distributore del mio cortometraggio, ha fatto un eccellente lavoro nonostante i problemi pandemici a cui facevo riferimento prima. Ha distribuito il cortometraggio nei più grossi festival mondiali, quelli di fascia A, e poi in quelli di fascia B e così via. Credo comunque che il mestiere del distributore sia un mestiere molto delicato perché bisogna avere un buon occhio sull’aspetto artistico del film e un grande fiuto su quello commerciale. 

A tuo parere, in un prossimo futuro, ci sarà ancora spazio per la distribuzione dei film nelle sale, oppure lo streaming rimarrà l’unica forma di diffusione delle opere?

Il cinematografo, storicamente, nasce per essere un luogo di proiezione e di espressione tecnologica. Quindi il cinema non esisterebbe se non esistessero le sale in cui proiettarlo. Però, avendo il Cinema una forte vocazione futuristica allo sviluppo della tecnica, non possiamo negare che le piattaforme-streaming stiano fagocitando una parte di pubblico (sempre più annoiato) che al cinema non va più, complice anche la pandemia o i mega televisori smart che riempiono le grandi pareti un tempo destinate alle librerie. E’ innegabile che la proiezione in sala abbia una magia tutta sua. E’ come un rito che parte dal trovare parcheggio, fino all’andare in bagno prima di accomodarsi in sala per non rischiare di perdere anche una sola inquadratura del film per il quale si dedica parte (e soldi) della propria giornata. Sicuramente, per riportare la gente al cinema, bisognerebbe agire in maniera più incisiva a livello legislativo e aiutare le sale cinematografiche a contenere i costi per consentire di abbassare il prezzo di un biglietto che, ahimè, costa quanto l’abbonamento mensile di una qualsiasi piattaforma. Quando ero piccolo ricordo che il cinema costava 5.000 lire e se oggi costasse 2 euro e 50, ci andrei sette giorni su sette: pura utopia.

Se si guarda alla grande stagione del neorealismo e a quella del cinema italiano degli anni ’60 e ’70, numerosi sono gli esempi di registi privi di una formazione tecnica specifica; credi che oggi – come allora - sia ancora possibile prescindere dalle scuole di cinema o comunque da un percorso formativo specifico?

Credo che per fare questo mestiere ci voglia tanta forza di volontà, pazienza e tanto studio, come in una qualsiasi disciplina. Io sono un laureato in giurisprudenza che si è appassionato alla scrittura cinematografica e poi è passato alla regia - allo strumento per intenderci. E’ come se prima avessi studiato solfeggio (da autodidatta e poi con l’aiuto di un insegnante, la scuola per sceneggiatori “Roberto Rossellini”) e successivamente fossi passato allo studio dello strumento vero e proprio. Il cinema è una disciplina come tante e non può prescindere dallo studio, dall’ascolto, dalla visione e dalla lettura, ma non credo di poter affermare che si possa diventare un bravo regista o sceneggiatore soltanto frequentando una scuola accreditata. Gli esempi di registi autodidatti sono tantissimi e molti di loro hanno anche vinto un premio Oscar.

Quanto sono importanti le affermazioni e i riconoscimenti provenienti dai festival di corti? Possono fare da trampolino di lancio verso la produzione di lungometraggi?

Sono importantissimi per il regista che vi partecipa, perché il riconoscimento fa bene al suo spirito, alla sua forza di volontà e alla sua autostima. Per il trampolino di lancio sono molti altri i fattori “ancestrali” che devono allinearsi per permettergli di fare il salto, compresa la fortuna. 

Quali sono i tre registi che ti hanno maggiormente influenzato?

Devo dirne almeno quattro o potrei stare ore a pensarci senza sapere chi scartare: Federico Fellini, Stanley Kubrick, Elio Petri, Paolo Sorrentino.

….e tre film che non si può proprio fare a meno di vedere?

Anche per i film, almeno quattro. “8 ½” di Fellini, “Indagini su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” di Elio Petri, “Full Metal Jacket” di Kubrick e “L’uomo in più” di Paolo Sorrentino.

Quanto il valore del soggetto e della sceneggiatura possono compensare la scarsa disponibilità di risorse tecniche e finanziarie?

Moltissimo, perché la regola è sempre la stessa: “Un high concept per un low budget”. Rimane comunque il fatto che per poter fare un bel film, un po’ di soldi bisogna spenderli, sia perché nessuno dovrebbe mai lavorare gratis (cosa che spesso si richiede) e sia perché trattandosi di prodotto audiovisivo, la qualità è molto importante e le macchine buone, le ottiche, le luci, le scenografie, i costumi, la manodopera e tutto il resto, ha un costo.  

Qual è, secondo te, la funzione del cinema oggi? Qual è il contributo che tu vorresti dare a questa arte?

Secondo me la funzione che ha sempre avuto il cinema è quella di educare alla vita, attraverso lo strumento che la riproduce distorcendola. In questo si sostanzia la sua magia secondo me. Per quanto riguarda il contributo che vorrei dare io a quest’arte, e a cui aspiro, è quello di poter dire qualcosa di semplice e interessante che faccia riflettere. 

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